Sin dall’infanzia ci rendiamo conto che gli altri muoiono, che muoiono gli estranei così come muoiono i nostri parenti ed i nostri familiari; ciò ci induce alla consapevolezza che anche noi moriremo e questo confronto con la realtà ci stimola più o meno frequentemente a rappresentarci la nostra morte. Eppure esiste una generale tendenza a rimuovere l’idea della morte dalla nostra vita quotidiana; ci si comporta come se la morte riguardasse soltanto gli altri o avesse uno spessore impersonale.
Nella nostra società si è perso il senso della morte e del morire, tanto che nel corso degli ultimi anni la morte è diventata qualcosa di innominato ed innominabile.
Rispetto al Medio Evo si ribaltano i termini: se prima la consapevolezza della morte aveva un valore positivo, ora è fortunato chi “muore nel sonno”; se prima era un dovere informare il paziente del suo stato, adesso è un imperativo deontologico. Tutto ciò si inquadra ottimamente in una società come la nostra, in cui felicità e benessere sono un obbligo morale, imposto dalla cultura dei consumi.
Oggigiorno parlare della morte e del morire è diventato un tabù come il sesso. Di fronte ad essa bisogna fare finta di nulla, solo in privato si può piangere la morte del proprio caro.
La morte oggigiorno è un evento isolato, separato dalla quotidianità in cui viviamo determinando una netta separazione tra vita e morte. Chi muore in ospedale avverte maggiormente la totale sottrazione della propria storia, della vicinanza alle persone care e a tutti gli affetti più importanti. Il paziente diventa dipendente di istituzioni e situazioni impersonali.
Il morire non è mai solo un problema privato del morente: l’intera famiglia è proiettata in una crisi profonda nella quale si sovrappongono i ricordi, buoni o cattivi, della vita passata, i bisogni del presente e le incertezze e le angosce per il futuro.
Questa condizione non cessa con la morte del malato ma si protrae per mesi, a volte per anni o per sempre, in quel complesso di sofferenze conosciuto come cordoglio o lutto.
Possiamo considerare la famiglia come un organismo complesso formato da singoli elementi ciascuno dei quali subisce in misura più o meno intensa gli stessi traumi e sperimenta le stesse emozioni del malato.
Sebbene i singoli famigliari non facciano diretta esperienza delle sue sofferenze fisiche, non è loro risparmiato alcuno stress psicologico: anche loro negheranno la malattia e la morte incombente, avranno paura, reagiranno con un alternarsi di speranza e di disperazione.
Su di essi graverà il peso della responsabilità delle cure, delle decisioni e delle scelte dalle quali il paziente è purtroppo troppo spesso escluso; il silenzio e la finzione continua di una comunicazione bloccata; il dover reprimere l’espressione delle proprie emozioni; la morte incombente, non solo quella fisica del proprio caro ma anche la morte sociale della famiglia che “dopo” non sarà più la stessa; la gestione quotidiana del malato e delle terapie. Se la famiglia come organismo è il prodotto di interrelazioni, di gerarchie, di sinergie dei suoi membri, la morte di uno di essi la scompagina ed il processo di ricompattamento, di rifondazione della famiglia stessa, è doloroso e talvolta imprevedibile.
I famigliari poi non godono più di quelle protezioni che le società tradizionali offrivano ai propri membri: la solidarietà del vicinato o del villaggio, i rituali religiosi e civili, la compassione e la simpatia. Oggi chi accompagna il morente e che poi dovrà ricostruire la propria vita è di fatto solo. Inoltre la medicalizzazione della morte ha confuso il morire con la malattia ed ha promosso la delega dell’intervento all’organizzazione sanitaria, la cui massima espressione è l’Ospedale.
La famiglia è a rischio: la crisi della sua stabilità fa si che essa nel suo complesso si comporti come un singolo individuo reagendo con rabbia, protesta, negazione, angoscia.
Quando nel gruppo esistono fratture latenti, la malattia e la morte possono scatenare processi di disgregazione con notevoli ripercussioni proprio su chi è coinvolto nelle cure e nell’assistenza.
La malattia e la morte ne sovvertono spesso l’architettura sociale, ad esempio mutandone la leadership (se il capofamiglia è ammalato altri dovranno sostituirlo). Anche in questo caso un equilibrio instabile o conflitti precedenti possono portare a tensioni e fratture.
La rimozione della morte e l’imbarazzo di mostrarsi vulnerabili possono determinare comportamenti di segregazione e d’esclusione verso alcuni membri della famiglia stessa. I bambini ad esempio non sono neppure portati in ospedale a visitare il genitore ammalato, mentre il blocco dell’espressione delle emozioni può creare vere e proprie barriere tra persona e persona.
Le possibili reazioni “patologiche” della famiglia si manifestano in tre forme principali:
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Negazione: la famiglia si comporta come se nulla sia successo e la gravità della malattia e le cure necessarie sono spesso trascurate o rimosse;
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Ipercoinvolgimento: tutta l’attività della famiglia si organizza intorno al malato. L’ansia dei familiari raggiunge livelli altissimi e il “fare” è usato come scongiuro nei confronti della morte. I malati sono sballottati da un ospedale all’altro, da uno specialista all’altro. In questo modo si creano le premesse per l’accanimento terapeutico, che a volte sembra essere esplicitamente ricercato.
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Distanziamento: si accetta la malattia e la morte ma si rifiuta la presenza del malato. Ogni responsabilità assistenziale è delegata, scaricata sui medici e sulle strutture sanitarie. L’ammalato è ricoverato: in pratica è collocato fisicamente fuori dalla famiglia.
Anche gli operatori sanitari mettono in campo diverse modalità di comportamento che riflettono i diversi atteggiamenti verso la morte:
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il non saper niente: il paziente non si accorge affatto dell’imminente morte, mentre tutti coloro che lo circondano lo sanno;
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il sospettare qualcosa: il paziente sospetta ciò che gli altri sanno e cerca quindi di avere una smentita o una conferma su quanto suppone;
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la mutua finzione: tutti considerano il paziente in punto di morte, ma ciascuno pretende che l’altro non faccia altrettanto; il personale e il paziente sono consapevoli della situazione e si comportano riconoscendolo apertamente.