Se l’operatore sanitario non sa riconoscere e gestire le proprie emozioni corre il rischio di cadere in burn out, cioè in una sindrome di esaurimento emozionale, con riduzione delle capacità personali di risposta emotiva che può presentarsi in chi, per professione, instaura relazioni di aiuto. Il burn-out può essere considerato una forma di stress occupazionale, il cui fattore caratteristico è che la sua causa è l’interazione sociale fra l’operatore e il destinatario dell’aiuto. La persona colpita si sente sfinita, svuotata, le manca l’energia per affrontare un altro giorno, le sue risorse emozionali sono consumate e non c’è una sorgente a cui attingerle nuovamente. Il burn-out non si stabilisce improvvisamente ma è un processo che si instaura in modo talmente graduale che l’operatore ne è inconsapevole; avverte che c’è qualcosa che non va, ma spesso non è in grado di qualificare e quantificare il suo disagio, e continua a lavorare facendo finta di niente; comunque, sia la persona che il suo lavoro, ne sono condizionati e compromessi.
In merito, Pregno (1988) sostiene che tale processo si può riassumere in tre fasi:
- squilibrio percepito tra risorse disponibili e richieste percepite;
- risposta emotiva di solito di breve-media durata, caratterizzata da ansia, tensione, fatica, irritabilità, esaurimento psicofisico (insonnia, disturbi gastrointestinali, cefalee, perdite di ideali, senso di fallimento e frustrazione);
- cambiamento di atteggiamento verso le persone assistite e verso la considerazione del proprio lavoro: gli assistiti sono visti più come “cose” che come persone, si ha un cambiamento nel modo in cui l’operatore si prende cura di loro, l’assistenza diventa più di routine ed egli presta meno attenzione ai bisogni umani dell’utente con conseguenti risposte comportamentali caratterizzate da scortesia, insensibilità, non partecipazione e indifferenza; l’operatore pensa: “Non me ne importa un accidente, per quello che mi pagano faccio anche troppo, tanto a fine mese mi pagano lo stesso”.