Il morente spesso suscita ansia e paura in chi lo circonda perché chi sta per morire testimonia sul fatto che “tutti” prima o poi moriranno; è quindi del tutto naturale sentirsi ansiosi, spaventati e adottare meccanismi di difesa anche inconsci per proteggersi dall’ammissione della propria vulnerabilità. Per questo, nell’assistere la persona morente ed i suoi familiari, l’operatore dovrebbe, in primo luogo, analizzare il suo atteggiamento nei confronti della morte.
Negare la propria mortalità e sentirsi turbati nei suoi confronti porta ad evitare le persone che stanno morendo, a scoraggiare i loro sforzi per affrontare realisticamente questo passo, ad instillare false speranze in loro e nei familiari.
Il difficile processo di confronto e comprensione sulla propria mortalità non nuoce all’operatore, anzi può portare a un completo apprezzamento della vita e a un maggior impegno nell’affrontare i problemi di ogni giorno. L’operatore che comprende la propria mortalità è più disponibile ad aiutare quanti stanno male.
Il rifiuto della morte, da parte della società, ha notevoli influssi nell’accompagnamento di chi muore, e rende particolarmente vulnerabili anche coloro che “per professione” se ne prendono cura.
Per Elias, “l’incapacità di portare ai moribondi l’aiuto e l’attenzione di cui hanno particolarmente bisogno nel momento del decesso avviene proprio perché nella morte altrui scopriamo un’avvisaglia della nostra. La vista di un moribondo intacca la difesa attivata dell’immaginazione dell’immortalità che edifichiamo come un muro a difesa del pensiero della morte” (Elias, 1985).
Il tentativo di rendere invisibile la morte nel nostro contesto sociale può riuscire abbastanza facilmente a chi lavora in ambiti non clinici, ma risulta impossibile per coloro che lavorano a continuo contatto con malati terminali. Questi operatori sono immersi in una situazione profondamente conflittuale: come membri della società sono tentati di rifiutare la morte e di escluderla dalla coscienza; come operatori sanitari hanno scelto di guardare continuamente in faccia la morte e di cercare di aiutare a “far vivere bene” questa fase della vita.
Un’assistenza adeguata al morente è un’impresa complessa: essa richiede infatti non solo competenza tecnica e profonda maturità psicologica, ma anche una continua esperienza di confronto con la propria sofferenza e la propria morte. Per essere in grado di costruire una relazione d’aiuto con l’utente è necessario che l’operatore faccia per prima cosa un’analisi introspettiva facendo i conti con ciò che la malattia e la morte suscita in lui e confrontandosi con le paure e le angosce evocate. Questa esperienza può essere gestita più o meno bene ed essere quindi più o meno sconvolgente, ma rimane una “partenza” individuale, assolutamente solitaria ed unica verso una destinazione sconosciuta.
Geneway e Katz scrivevano che: “Davanti alla malattia, quando veniamo presi dallo sconforto e soffriamo nel vedere il dolore degli altri, ci troviamo spesso ad indossare la nostra solida corazza professionale; la giustifichiamo dicendo a noi stessi che in tal modo rendiamo le cose più facili alla persona morente. In realtà essa serve a proteggere noi stessi”.
Inoltre essi aggiungono che: “Essere (o divenire) consapevoli dell’intensità dei nostri vissuti è condizione essenziale per poter porsi in modo non banale di fronte ai vissuti della persona morente: solo chi ha il coraggio di guardare fino in fondo dentro di sé è in grado di supportare e condividere la sofferenza altrui”.
Date queste premesse è importante che ogni operatore sanitario trovi degli spazi in cui potersi domandare cosa è la morte e nei quali possa far emergere le emozioni che da questo “incontro” sorgono. Se prima non accoglie e non elabora una sua consapevolezza rispetto al fatto di essere mortale, se non ha stabilito con la propria morte un rapporto in qualche modo sereno, se non l’ha integrata nella propria vita, difficilmente riuscirà ad “accompagnare” verso una morte dignitosa colui di cui si prende cura. Per l’operatore con difficoltà a prendere in considerazione questo aspetto, risulta difficile creare la comunicazione necessaria per stabilire una relazione con il paziente in quanto, più o meno inconsciamente, rischia di trasmettergli il suo rifiuto. Non solo, i sanitari devono apprendere delle modalità per tollerare il proprio dolore per poter incontrare il malato nella sua sofferenza senza uscirne psichicamente distrutti.
“L’operatore, – dice Cristina Pregno – proprio perché non è colui che è colpito direttamente dalla sofferenza, anche se ne avverte la possibilità e il riflesso, ha il compito di cercare le uscite da questa condizione, centrandosi sulle potenzialità dell’individuo con cui è in relazione, sulle sue risorse, quindi, e sulle prospettive di “vita altra” che il dolore propone, cioè evidenziare le nuove strategie che la mutata situazione di vita può generare; facendo ciò l’operatore apre immense prospettive di conoscenza, per sé e per la persona: l’operatore impara, e quindi cresce, dalla sofferenza umana e dalla relazione con chi soffre.”